Ai tempi di zia Amalia c’erano ancora le zitelle. Le donne
diventavano zitelle perché nessun uomo le aveva volute, e nessun uomo le aveva
volute perché erano troppo secche, e siccome erano zitelle tutti le guardavano
male e pensavano che avessero un brutto carattere. Zia Amalia era una zitella.
Mia madre andava a lavorare, e zia Amalia era venuta a stare
con noi per badare a me, che ero piccola, e aiutare con la casa. Se oggi
qualcuno facesse questo per me senza pretendere il doppio del mio stipendio, io
gli farei una statua equestre e la esporrei all’ingresso. Invece mia zia Amalia
era mal tollerata, sembrava che tenendola in casa fossimo noi a farle un
favore, perché, certo, lei era zitella e non aveva una famiglia sua.
Zia Amalia non aveva neppure una casa sua: quando non stava
con noi, stava con mia nonna sposata, che era sua sorella e aveva studiato,
faceva la maestra. Zia Amalia invece no, non aveva studiato, poi era zitella, e
quindi, sebbene facesse praticamente la serva a mia nonna, doveva esserle
grata, perché lei era zitella e non aveva una casa sua, non l’aveva mai avuta.
Le zitelle erano piuttosto zitelle fin da giovani,
evidentemente si capiva subito come sarebbero finite. Certe volte mi ricordo che zia Amalia usciva e quando
tornava mi chiamava in cucina con un gesto silenzioso della mano, vieni, poi
tirava fuori dalla borsa un cartoccio e lo metteva sulla tavola. Io lo sapevo
cosa c’era dentro: le amarene. Lucide, grosse, dolci, quasi nere. Mia madre
(non so perché) era convinta che le amarene mi facessero male, e per me erano
assolutamente vietate. Salvo quando zia Amalia me le comprava di nascosto e me
ne faceva mangiare quante ne volevo. Ancora me lo ricordo, come erano buone, e
mi ricordo come rideva zia Amalia e come ridevo io. Credo che quella fosse la
felicità, per tutte e due: complici in quella allegra efferatezza, chiuse in
cucina a mangiare le amarene. Non stavo affatto male, dopo. Ma mia madre non se
ne è mai accorta.
In tv, a quei tempi, davano uno sceneggiato che mi piaceva
tanto ma di cui non capivo niente, se non che c’erano donne con vestiti e
capelli lunghissimi e uomini che correvano a cavallo nei prati. Allora con zia
Amalia giocavamo ad Aivanù: lei mi raccontava storie complicatissime, che
adesso non ricordo, ma che tutte culminavano nella cavalcata a perdifiato di
Aivanù sulle sue ginocchia. Io ero Aivanù, naturalmente. Finiva che zia mi
faceva cadere (per finta) e ridevamo un sacco. Da grande ho letto il vero
Ivanhoe di Scott, ed è stata una delle più grandi delusioni della mia vita.
Quando fui un po’ cresciuta, zia Amalia tornò ad abitare da
mia nonna. D’estate andavo a passare un mese al mare da loro. Zia Amalia mi
faceva trovare sul balcone il dondolo pronto e ripulito dalla ruggine
dell’inverno. Sul dondolo ci passavamo le serate, a chiacchierare e a sentire
la musica nel mangiadischi. Zia mi comprava i dischi, quelli che volevo io. Il
mangiadischi era un aggeggio che oggi non esiste più, che sembrava una piccola
valigetta, con cui si potevano sentire i 45 giri. Anche i 45 giri adesso non
esistono più, sono roba da collezionisti. Sul dondolo, la sera, zia Amalia mi
raccontava quello che faceva da giovane, e di quando sua madre buttava dalla
finestra l’acqua addosso ai suoi corteggiatori che andavano a farle la
serenata. Prima di diventare una zitella zia Amalia aveva dei corteggiatori che
le facevano la serenata. A me questa cosa piaceva da morire, mi piaceva
immaginarmela, e anche la bisnonna che inveiva dalla finestra. Zia Amalia era
bravissima a raccontare storie, bravissima. Ridevamo un sacco, la sera sul
dondolo.
Morì troppo presto, intendo troppo presto per me. Il resto
della famiglia se ne dimenticò piuttosto in fretta, credo. Quelli che piangono
davvero ai funerali sono i figli, e zia Amalia di figli non ne aveva. Però
aveva me.
Qualche anno dopo, parlando con una mia lontana cugina,
venni a sapere che zia Amalia aveva una storia segreta, che non aveva mai
raccontato a nessuno. Per la verità era un tabù, quella storia, per tutta la
famiglia, e quindi non se ne parlava mai, non se ne doveva parlare: così
dicevano la mia bisnonna, mia nonna e mio padre. Il fatto è, mi raccontò la mia
lontana cugina che aveva scoperto la cosa dai pettegolezzi di sua madre, che
zia Amalia era stata sposata. O forse non si era neppure sposata, ma era
scappata con un uomo. Non era un uomo qualsiasi, pare: si vociferava fosse un
nobile, un ufficiale, uno straniero, un tedesco. Se n’era andata via con questo
misterioso personaggio, via dove?, e poi era tornata, dopo un po’, da sola.
L’avevano ripresa in casa, malgrado la vergogna, e quella storia era
sprofondata nel silenzio, e quindi nell’oblio. Dunque era stato così che zia
Amalia era diventata una zitella.
Provai in tutti i modi a cercare altre informazioni su
questo segreto di famiglia, ma mia nonna era morta, mio padre ne sapeva poco e
comunque non gli piaceva parlarne; di carte, lettere, fotografie non ne trovai.
Salvo quelle di zia Amalia da giovane, che era alta, snella e fiera, nello
sguardo e nel portamento. Ma quelle erano foto di prima. Insomma, le mie
ricerche furono infruttuose. Allora cominciai a lavorare di fantasia, su questa
storia.
Erano i primi anni del ‘900 a Napoli: prima della Grande
Guerra. Zia Amalia era una ragazzina, era bruna e aveva gli occhi neri,
lucenti. La sua era una famiglia della buona borghesia: andavano a passeggio,
andavano al mare, alle feste da ballo. Fu così che un giorno zia Amalia
incontrò un giovane: era sicuramente alto, sicuramente biondo, sicuramente
bello e fiero a sua volta. Portava la divisa e sapeva essere cortese con le
signore. Ballarono insieme una sera. E forse la stessa sera si baciarono di
nascosto, sul terrazzo o nel giardino, sulle scale o in un salottino vuoto,
mentre la musica, di là, suonava ancora. Si videro altre volte, non per caso, e
mia zia si consumava d’amore per questo straniero misterioso. Poi lui la
convinse a partire, a seguirlo chissà dove. Io so che non avrà fatto molta
fatica: zia Amalia era una che adorava le storie complicate, i romanzi, era una
che si perdeva nei sogni, che si struggeva di curiosità per quello che non
conosceva. No, di sicuro quell’uomo in divisa non avrà fatto molta fatica per
convincerla.
Non so cosa sia successo dopo, quali ostacoli abbiano
distrutto quel sogno così grande, quali umiliazioni abbiano ucciso quell’amore
coraggioso e incosciente. Non riesco a immaginarmelo, e in fondo non lo voglio
sapere. Certo, rimasta sola sarà stata distrutta, zia Amalia, sarà stata
disperata. Ma qualche cosa di dolce e di buono quell’avventura nell’ignoto,
quel sentimento scervellato io credo a lei l’abbia lasciato. Io so che nelle
amarene e nelle storie di zia Amalia c’era molto amore e c’era allegria. Da
qualche parte della sua vita e della sua memoria dovrà pure averli presi.
Tina Caramanico è nata a Taranto
nel 1962. Oggi vive ad Abbiategrasso, in provincia di Milano. Ha pubblicato nel
2011 una piccola raccolta di poesie, “Guida
a Milano invisibile”, Nulla Die; nel 2013 tre raccolte di racconti: “Le cose come stanno”, in digitale con
Officine Editoriali; “Oltre l’incerto
limite”, Runa Editrice; “Piccole
storie oscure”, 0111 Edizioni; nel gennaio 2015 è uscita una nuova raccolta
di poesie, “I poeti non servono a niente”,
con la casa editrice Ottolibri e una novella tra horror e noir, “In memoria”, in digitale con Nero
Press. Seguono le sue prime due pubblicazioni indie: la raccolta digitale “Nell’altra
stanza (tre racconti sull’altrove)” e il libro “Le cose come stanno e altri racconti”, che contiene in versione
cartacea l’omonima raccolta e i tre racconti di “Nell’altra stanza”. Altre sue poesie
e numerosi racconti brevi sono usciti in varie antologie (editori, tra gli
altri, LietoColle e Mondadori), riviste e sul web.